Crisalidi – Capitolo XIII

Assai di rado nella vita di un uomo tutto va bene, anzi, mai. Anche nei momenti di gioia finisce per insinuarsi una preoccupazione, un problema, che gettano un’ombra sinistra, inquietante e ridimensionano la portata della felicità, se non la distruggono del tutto. Nel mio caso, in quei giorni sentimentalmente idilliaci, pieni d’amore e impreziositi da piacevolissime prospettive future, il problema riguardò innanzitutto il lavoro.
Il giorno seguente alla visita ai Musei Vaticani, lunedì, Luca mi accolse in libreria con un sorriso tirato molto, troppo simile a una smorfia di dolore. Compresi al primo sguardo che dalla sua bocca, quella mattina di inizio settembre, al tramonto dell’estate, sarebbero uscite parole spiacevoli, per entrambi, forse, ma soprattutto per me, e infatti così avvenne. Quando si tratta di presagire sventure, raramente il mio istinto sbaglia.
– Ieri ho passato l’intera giornata a fare i conti, a tirare le somme di questi ultimi mesi, e ho avuto la certezza di ciò che sospettavo da tempo e che, immagino, sospettassi anche tu. In poche parole, gli affari non vanno bene, – esordì con un tono grave, che mai, prima di quel momento, gli avevo sentito utilizzare.
– È vero, lo sospettavo anch’io, – risposi, mentendo, perché anche quand’ero a lavoro non facevo altro che pensare a Marta, a Marina e a quello che ci attendeva. Nella mia testa non c’era spazio per gli affari, non poteva esserci, e ora gli affari mi aggredivano, così, di punto in bianco, da un giorno all’altro, come se volessero vendicarsi della mia noncuranza, della mia trascuratezza in quegli ultimi mesi.
– Siamo in prossimità del periodo in cui lavoriamo di più, con l’apertura delle scuole, ma non basta, e credo che non basterebbe neppure aprire la domenica. Il problema grosso è che si legge sempre meno in questo benedetto paese, e quando dico paese non intendo solo Nettuno, ma l’Italia intera. Gli ultimi dati sono sconfortanti, ma che dico sconfortanti… sono drammatici. Stiamo regredendo ed è spaventoso, – continuò Luca, togliendosi gli occhiali, posandoli sul bancone ingombro di libri e massaggiandosi le palpebre chiuse, manifestando una stanchezza innaturale per l’ora, ma giustificata da una notte tormentata, forse addirittura priva di sonno, dopo una giornata intera passata a fare i conti con numeri tutt’altro che consolanti.
Ascoltando quelle sue parole, affaticate dal peso dell’amarezza, del dispiacere, della delusione, vedendolo così precocemente stanco e profondamente abbattuto, provai per lui un affetto inedito, che mai avevo provato nei suoi confronti, e tentai di alleggerirgli la fatica, proseguendo io il discorso, perché tanto sapevo benissimo cos’altro aveva da dirmi.
Mi sono sempre distinto per una grande perspicacia, sin da bambino. Ricordo che una volta, alla scuola elementare, mentre la maestra di storia ci parlava dell’impero romano e in particolar modo del regno di Costantino, la anticipai annunciando alla classe che con lui il Cristianesimo diventava la nuova religione di stato. Lo avevo capito dal preambolo e ricordo ancora con un certo piacere l’entusiasmo della maestra alle mie parole.
– Lo so bene, Luca, le spese sono tante, l’affitto e tutto il resto, le entrate poche, ma di un’altra persona qui dentro hai bisogno e te lo dico con il cuore in mano, credimi, per non correre il rischio che la libreria fagociti completamente la tua esistenza, seppellendola. Perché hai il dovere di prenderti cura della tua compagna e di tuo figlio, di accudire le loro esistenze. Non pensare che io ti dica questo nel tentativo di farti cambiare idea, si tratta solo di un consiglio da amico. Non intendo affatto contrastare ciò che è inevitabile e renderti tutto più difficile di quanto già non sia. E puoi stare tranquillo che non ti serberò rancore per il mio allontanamento, è giusto così. Spero con tutto me stesso che il mio sacrificio permetta a questa storica libreria di sopravvivere, – dissi con calma, già rassegnato al mio destino.
Vidi Luca riaprire gli occhi e il suo sguardo accendersi, forse per la prima volta in quella triste mattina, brillare di gratitudine per quel favore inatteso, per avermi detto da solo ciò che a lui pesava tanto dirmi.
– Se vuoi andare via subito sei libero di farlo, – mi concesse accennando persino un sorriso, definitivamente rasserenato dal fatto che tutto si fosse concluso in così poco tempo e in modo così pacifico e vantaggioso.
– In effetti, in questo momento non sono dell’umore adatto per lavorare, – risposi, sorridendo anch’io. Volevo evitare una lunga e fastidiosa giornata di sguardi, gesti, silenzi imbarazzati e imbarazzanti. Tutto era finito, nel giro di pochi minuti, come era iniziato, non serviva a niente protrarlo ancora per qualche ora.
Ci stringemmo la mano e, salutandomi, Luca disse che si augurava dal profondo del cuore che il nostro rapporto d’amicizia sarebbe rimasto tale, nonostante tutto. Lo rassicurai, mentendo ovviamente. Ora non c’era proprio più nessun motivo perché, magari incontrandolo per strada, dovessi sorbirmi le sue chiacchiere, facendo finta di ascoltare. Non ce l’avevo con lui perché mi aveva licenziato, sia chiaro, sono cose che capitano. Semplicemente, quel momento d’inedito affetto che avevo provato nei suoi confronti era passato, svanito e non sarebbe più tornato. Perché rivedevo ora, e con una chiarezza spietata, inequivocabile, quanto fossimo differenti. Due caratteri e due culture inconciliabili.
Tornai a casa e mi gettai sul letto, fumando una sigaretta. Ero dispiaciuto e non tanto per me (di me non mi è mai importato molto, a me ho anteposto sempre chi mi sta intorno e ha la sfortuna di amarmi, soprattutto i miei genitori), quanto per Marta e Marina. Di lì a pochi giorni avrebbero dovuto trasferirsi da me e ora io mi ritrovavo senza un lavoro.
Paghi a caro prezzo tutta la fortuna di cui hai goduto in questi ultimi mesi, mi dissi, e tornai a provare sensazioni sgradevoli, come quell’incertezza che mi aveva dato il tormento dopo la fine degli studi universitari e il fallimento della prova d’ammissione al dottorato. Si parla tanto di flessibilità, ma nel paese inflessibile per antonomasia, a meno che per flessibilità non si intenda passare da un lavoro normale, o quantomeno vicino alla normalità, a un lavoro del tutto privo di garanzie e magari in nero, tipo, che so, il cameriere, pagato venticinque euro al servizio, di tanto in tanto con un voucher, come mi era accaduto anni prima, nei mesi di distacco tra il conseguimento della laurea triennale e l’inizio di quella magistrale. Ma soprattutto, oltre all’incertezza, fui punto nel profondo dalla consapevolezza che la disoccupazione improvvisa avrebbe influito, e in negativo, sulla mia relazione con Marta e Marina, rallentandola, raffreddandola. Iniziai da subito a sentirle entrambe un po’ più lontane da me.
Marta, in quel preciso istante, si trovava appena un piano sotto di me, ma non avevo voluto correre il rischio che potesse accorgersi della mia presenza in casa. Ero salito ricorrendo all’ascensore, come non facevo mai, e, una volta entrato nell’appartamento, avevo chiuso la porta dietro di me, senza aprire neppure una persiana. Sarebbe stato per me troppo umiliante vedere Marta subito dopo la notizia del mio licenziamento. Per la prima volta dopo mesi, volevo starmene da solo. Perché se in quel momento avessi avuto lei vicino, avrei letto nei suoi occhi quella lontananza che iniziavo a sentire e non lo avrei sopportato.
Così, me ne stavo sdraiato sul letto, fumando una sigaretta dopo l’altra, immerso nel buio innaturale, rovistando nella mia testa in confusione in cerca delle parole che, presto, troppo presto, avrei dovuto dire a Marta per spiegarle la situazione. Perché se la pausa pranzo la trascorreva nello studio in compagnia di una collega, alle cinque del pomeriggio, quando terminava di lavorare, passava sempre in libreria a salutarmi, prima di tornare da Marina.
Restai in casa fino a quell’ora fatidica, in preda a un’angoscia che non provavo da anni e alla quale non ero più abituato, senza muovermi un istante dal letto, senza neppure mangiare, inspirando solo fumo. Nella mia camera, e forse nell’intero appartamento, sembrava ci fosse un incendio, ma non me ne curavo. Dopo un po’ riuscii ad assopirmi, ma fu un sonno breve e tormentato, in cui mi lamentai come se avessi la febbre. Mi svegliai con un gran mal di testa e presi un antidolorifico prima di uscire, sforzandomi di ingerire almeno una fetta di pane vecchio. Spalancai anche tutte le finestre e le persiane, per far uscire il fumo e far prendere fiato alla casa.
Ero intenzionato a rivelare tutto a Marta, ma non lo feci. Per mancanza di coraggio, certo, ma anche per non turbarla, almeno quel pomeriggio.
– Ieri ho promesso a Marina di comprarle tele, pennelli e colori, non me ne sono dimenticato. Così, mi sono preso qualche ora di permesso per poter andare a comprare tutto l’occorrente con te, – le dissi mentre scendevamo le scale e Marta era raggiante per la sorpresa.
Mi era bastato vederla e averla resa felice con la mia semplice presenza, perché l’angoscia svanisse, e con lei il mal di testa. In quel momento scoprii che Marta aveva per me anche l’efficacia di un antidepressivo.

Crisalidi ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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